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La sporcizia degli altri

 

Disegno di Carlo Coccioli

COCCIOLI_UN_SUICIDIO_COPERTINA_PICCOLA“Ma cosa può farle, a lei e alla sua purezza, la sporcizia degli altri? Crede veramente che il suo senso della purezza sia alla mercé di chiunque, che una parola o un atto possa distruggere il tesoro che è in lei, e che un prete sia il Cristo o che un immondo personaggio che raccatta dei ragazzini all’uscita di un cinema debba necessariamente compromettere la sua idea dell’amore?” (Carlo Coccioli, Un suicidio, qui .)

Come negli anni ’50 del secolo scorso, l’omofobia è una minacciosa e crudele realtà in molti paesi e settori della società.Il tema di questo male oscuro, o sfacciatamente lampante, scorre come un filo rosso nelle opere di Carlo Coccioli e costituisce il terreno su cui si eleva anche l’affascinante costruzione del romanzo Un suicidio. Mentre in alcuni capitoletti del suo Journal, da noi pubblicati in appendice al libro, Coccioli  riporta senza filtri o trasfigurazioni letterarie la sua esperienza e i suoi pensieri di quello snodo della sua vita, svelando tra l’altro timidezze e paure insospettabili annidate persino nella élite intellettuale parigina del tempo. Eccone un saggio:

186. […] D’altronde, ciò che posso provare per questa morte che ha preso il nome di uno dei miei libri (il più necessario, il più grave) è troppo ancorato alla mia intimità e al mio segreto perché possa desiderare di parlarne con me stesso o con gli altri. Fabrizio Lupo non è né un gioco letterario né un moto d’umore. Non ho accettato che fosse pubblicato senza aver prima risposto a innumerevoli domande a volte molto perturbanti. Se cercarono di dissuadermi dal pubblicarlo, lo fecero solo per dei motivi di ordine assai pratico, e, per me, inaccettabili; Gabriel Marcel, di cui ammiro l’integrità morale, e che amo, scrivendomi in data 4 ottobre 1951, invocava, per esempio, una ragione di «scandalo» borghese: «Non ho letto Fabrizio Lupo che in parte, ma sono arrivato alla convinzione che il libro, anche rimaneggiato, non deve apparire in Feux Croisés. Come diceva molto giustamente ieri Orengo, Il cielo e la terra, che è un vero successo, ha raggiunto un pubblico essenzialmente cattolico che sarebbe scandalizzato in sommo grado dal suo ultimo libro.». Sebbene personalmente non avessi alcun dubbio riguardo alla necessità, persino all’esigenza, di un’opera del genere, destinata a raccomandare l’ordine e a rafforzare la speranza, spinsi i miei scrupoli al punto di sottometterla al giudizio di Julien Green, accompagnandola con la domanda: «Lei crede, messa da parte ogni considerazione di ordine letterario, che Fabrizio Lupo possa esercitare un’azione pericolosa sullo spirito di qualcuno dei suoi lettori?» e Julien Green mi rispose: «No.». Nel corso di tre o quattro conversazioni private, trattammo esplicitamente questa delicata questione che investe in pieno la responsabilità dello scrittore e l’etica letteraria. Ebbi allora la gioia di vedere che la mia certezza trovava un’ampia conferma nelle sottili argomentazioni di un uomo di cui non potevo non stimare l’eccezionale sensibilità morale. Dei nostri incontri, Julien Green ha giudicato opportuno non parlare nel suo Journal; la sua discrezione, questa volta più che mai, non ha mancato di sembrarmi bizzarra, lo confesso, soprattutto considerando l’importanza che sembrava attribuire a ciò che mi aveva spinto a chiedere il suo consiglio. Non posso d’altra parte non ricordarmi che, qualche giorno dopo la pubblicazione del mio libro, intervistato da André Bourrin di Les Nouvelles Littéraires, avevo ritenuto mio dovere di manifestare pubblicamente la mia riconoscenza verso Julien Green, rivelando il ruolo che aveva avuto la bontà di giocare nelle mie questioni spirituali per placare le mie ultime inquietudini; ma, una volta che Bourrin mi ebbe lasciato, preso da non saprei dire quale sorta di curioso scrupolo, tenendo, tuttavia, più che a un’opinione ragionevolmente fondata, a ciò che indovinavo come tipico di Julien Green, lo chiamai al telefono e gli comunicai che avevo appena citato il suo nome e messo in evidenza i suoi preziosi interventi. Allora ebbi la sgradevole sorpresa di sentire, all’altro capo del filo, un uomo sopraffatto dall’imbarazzo, quasi incapace di esprimersi, supremamente afflitto da un timore che gli era probabilmente difficile ammettere; ciononostante, finì per pregarmi di richiamare Bourrin: «Potrebbe dirgli che sarebbe preferibile che non parlasse affatto di me, lei capirà che certe questioni io mi riservo di trattarle un giorno direttamente ma con più prudenza, e che sarebbe increscioso che si potesse interpretare la mia azione come…» ecc. Non aveva bisogno di continuare; richiamai Bourrin, come mi aveva raccomandato, e il nome di Julien Green non apparve nell’intervista che Les Nouvelles Littéraires pubblicarono in data 26 giugno 1952 (dove, del resto, le mie dichiarazioni erano state passate al filtro della “decenza” piccolo-borghese). Ma non vorrei che da tutte queste parole si avesse l’impressione che io cerchi una scappatoia alla mia responsabilità; quali che siano le sue dimensioni e le sue conseguenze, essa appartiene solo a me, voglio dire che io sono il solo responsabile; sono il solo giudice della mia coscienza. Jorge Zuñiga Cordero, di cui piango la morte, non si è ucciso a causa di Fabrizio Lupo, questo libro che aveva tanto amato, come ha dichiarato lui stesso prima di morire, e che l’aveva tanto aiutato; la sua morte è dovuta, tutto al contrario, a quello stato d’animo, o di spirito, di cui io denuncio violentemente l’iniquità nel mio romanzo. Io ritengo che la morte atroce e teatrale di questo povero ragazzo messicano, orribile specchio di ciò che l’ha fatto morire, provi una volta di più che non mi sono sbagliato quando ho affermato la necessità imperiosa di un messaggio di speranza.

197 […] Ho il netto ricordo della prima visita che mi fece Jean N., dopo una breve lettera che, in seguito, definì “grottesca”. Fui io stesso che gli aprii la porta del mio appartamento parigino. Aveva l’aria di un bambino spaurito, benché avesse già vent’anni; notai le sue guance mal rasate, i suoi occhi stravolti e insieme disposti all’abbandono, il movimento, quasi un tremito, delle sue mani, una timidezza selvaggia mista a una specie di speranza testarda; ebbi l’impressione che non fosse in condizione di parlarmi e persino che si fosse pentito di aver bussato alla mia porta (ma con che tono di urgenza, d’imperiosa necessità, mi aveva scritto per chiedermi questo incontro!). Si sedette sul bordo di una sedia; gli offrii una sigaretta, che rifiutò con un gesto brusco; evitava con cura il mio sguardo; mi misi a parlargli con calma, e inutile dire che gli parlavo solo di me stesso; lui aveva quasi l’aria di non ascoltarmi, si sarebbe detto che mi tenesse il broncio; di tanto in tanto pronunciava una parola o due, era come se ammettesse che avevo ragione ma che la cosa non lo riguardava minimamente; e si richiudeva di nuovo nella torre della sua silenziosa ostilità. Mi faceva molta pena. Aveva l’aspetto di un giovane contadino senza alcuna forza, senza alcuna sicurezza interiore che non fosse quella della sua ostinazione; niente di più difficile di farlo parlare, ma ci riuscii. Cominciò col farmi sapere, con un accento di sfida, che era cattolico, e credente, e persino praticante; che, malgrado ciò, aveva già preso una decisione, poiché non poteva più vivere; eccola, la sua decisione; e, dicendomi questo, affondò il suo sguardo nel mio; poi, abbassando la testa, e su un altro tono, confessò che non sapeva più perché era venuto a trovarmi. «Forse», gli feci osservare, «è perché le occorre un testimone; non potendo più vivere, per usare il suo linguaggio, bisognava pure che lo dicesse a qualcuno; lei potrebbe concepire una protesta che non sia espressa in modo o in un altro?» Allora lui mi guardò di nuovo e come sorpreso: «Ma quindi non ha capito…» «Perfettamente», gli dissi, «e non cercherò neppure di distoglierla dal suo proposito.» Ci fu un silenzio; poi, parlò. Aveva finito il servizio militare qualche mese prima. Sarebbe dovuto tornare a casa; la sua famiglia, molto modesta, viveva in un villaggio del Limousin; era destinato a una carriera di maestro elementare in quello stesso villaggio; ma non aveva voluto tornare dai suoi genitori; aveva altre ambizioni. «Eppure lei non è un ambizioso», osservai interrompendolo. Alzò la testa: «Ah no?» «No, si vede.» «Io sono…» Non terminò la frase, il che, del resto, sarebbe stato superfluo, perché avevo capito. Continuò. Non possedendo che una piccola somma, frutto delle sue economie, aveva accettato, a Parigi, l’alloggio offertogli da una donna del suo paese, che aveva sposato un parigino ed era rimasta vedova: una specie di sgabuzzino dove, in ogni caso, era a casa sua; ma questa donna, che non era ricca, gli chiedeva un affitto, per quanto modestissimo; e lui doveva pur nutrirsi; questo d’altronde non aveva alcuna importanza, perché un bicchiere di latte, e talvolta nient’altro che un cucchiaio di farina diluito in una tazza d’acqua, potevano bastargli; e tutta la giornata a cercare lavoro. Aveva finito per trovarlo presso un notaio, un vero colpo di fortuna; ma ce l’aveva anche con se stesso per il fatto di raccontarmi simili miserie; la sostanza della questione non era lì. «La mia famiglia non ha mai accettato che io resti qui, s’immaginano che Parigi sia come l’anticamera dell’inferno, e che io passi la vita con delle donne…Un giorno, o più esattamente, una sera, dopo aver lasciato il lavoro (faccio il fattorino), avevo un magone tremendo, feci una lunga passeggiata sugli argini, ed ero talmente oppresso dalla solitudine che avevo voglia di piangere, allora mi sedetti su una panchina dietro Notre-Dame, e qualcuno mi si avvicinò: era un ragazzo. Aveva l’aria perbene, cominciò a parlarmi, anche lui si sentiva solo; erano le prime parole umane che mi venissero rivolte dal momento in cui ero venuto a vivere a Parigi (e ciononostante — non è strano? — non ricordo neppure che cosa mi ha detto). Aveva la mia età. Siccome faceva abbastanza freddo, e io non avevo voglia di lasciare questo ragazzo, ed era evidente che neanche lui ne aveva, gli proposi di andare da me, non era lontano, lui accettò. Così lo portai da me. E restammo lì, a chiacchierare del più e del meno, fino alle undici; alle undici, se ne andò. Il mattino dopo, la signora da cui abito mi guardò con aria strana; mi domandò chi era il giovane che mi aveva accompagnato nella mia camera. Le risposi che era uno che avevo conosciuto per la strada, uno studente, e che mi era simpatico; non osavo sperare di aver trovato un amico…Lei fece: Ah!, e questo fu tutto. Io lo ignoravo, ma lei si teneva in contatto con i miei genitori, i quali, non capendo le ragioni che mi spingevano a vivere a Parigi, e non dandosi pace, e abbandonandosi a ogni sorta d’ipotesi, avevano fatto di lei, di quella donna, la loro confidente; lei spiava i miei spostamenti e gli scriveva molto spesso; immagino che fosse insieme sorpresa e furiosa di non potergli dire che nella mia vita c’era una donna: quella sarebbe stata la migliore spiegazione del mio comportamento. Il fatto è che, qualche giorno più tardi, una settimana fa, ho ricevuto una visita. Era un prete, originario del mio paese ma che viveva da anni nella periferia di Parigi; un uomo sulla quarantina; lo conoscevo appena; avevo parlato con lui due o tre volte nella mia vita; s’è presentato con aria grave, annunciandomi che doveva parlarmi a proposito di una faccenda seria: tramite il parroco del nostro villaggio, suo vecchio amico, la mia famiglia l’aveva incaricato di una missione nei miei confronti. Avendo concluso questo breve prologo, questo prete, quest’uomo, mi ha detto…». Jean N. s’interruppe e si guardò intorno, smarrito; abbassò la testa, restò in silenzio. «Le ha detto cosa?» Ma mi accorsi che piangeva silenziosamente, che aveva le guance bagnate di lacrime. Non insistetti; aspettai. Accesi un’altra sigaretta. «Sono cristiano» mormorò Jean N. senza smettere di piangere. «Sono cristiano e ho sempre vissuto nella Chiesa. E questo prete, quest’uomo…». S’interruppe di nuovo senza che i suoi occhi smettessero di lasciar cadere dei lacrimoni; non era più che un bambino che ogni aggressività, ogni resistenza, persino ogni ostinazione avevano abbandonato; era per intero in queste lacrime puerili, senza difesa e senza più ritegno. «Avanti!» gli dissi allora a voce bassa, più commosso di quanto non volessi mostrargli. «Pianga, se le fa bene, ma continui a parlarmi; anche questo le farà bene; non era per parlarmi che è venuto?» «Allora quest’uomo, questo prete, mi ha detto che, spinto da una lettera dei miei genitori, che non avevano capito niente di quello che la loro confidente, in uno stato di grande esaltazione, gli aveva appena scritto, era andato a trovarla per saperne di più; e che aveva capito che io non ero che un disgraziato pervertito, e che se volevo vivere a Parigi era solo per abbandonarmi senza ritegno alle mie passioni vergognose, e che ne avevo fornito l’ultima prova portandomi a casa un ragazzo adescato sa Dio dove, che avessi almeno l’onestà di non negare! E, prima ancora che fossi in grado di fare un movimento o di pronunciare una parola di protesta, sporgendosi verso di me, e cambiando improvvisamente tono, quest’uomo, questo prete, mi ha detto che, nonostante tutto, lui sapeva capirmi, perché la carità, se non la giustizia, gliene dava il potere; e che era disposto a non denunciarmi ai miei genitori, come sarebbe stato suo dovere fare immediatamente; che aveva persino la possibilità di far tacere la signora che mi ospitava; insomma, che mi avrebbe aiutato a uscire dall’impasse in cui mi trovavo. Ma che, in cambio, io dovevo…». Jean N. si fermò di nuovo, mi guardava fissamente. Non piangeva più. «Che io dovevo, in cambio,» continuò con forza «che dovevo essere un po’ gentile con lui; ecco cosa mi disse quest’uomo, questo prete, e, tutto proteso com’era verso di me, e io ero, sotto il suo fiato, diventato di pietra, avvicinò la bocca al mio viso e cercò…» Feci un gesto. «Basta!» esclamai «basta!»; alzatomi, mi misi ad andare su e giù per la stanza. Più tranquillo, Jean N. taceva contemplandosi le scarpe. Riuscii a calmarmi. «E lei,» gli dissi fremendo «e lei, è per questa sporca storia, vero?, che lei ha deciso di non vivere più; perché quest’uomo, questo prete, ha cercato di sporcarla; solo per questo, perché lei è un puro e quello era una sozzura…Ma cosa può farle, a lei e alla sua purezza, la sporcizia degli altri? Crede veramente che il suo senso della purezza sia alla mercé di chiunque, che una parola o un atto possa distruggere il tesoro che è in lei, e che un prete sia il Cristo o che un immondo personaggio che raccatta dei ragazzini all’uscita di un cinema debba necessariamente compromettere la sua idea dell’amore? Se è questo che crede, lei si sbaglia. Ciò che ci incoraggia alla vita: l’amore, la chiarezza delle intenzioni, la sincerità nei rapporti sociali, la fedeltà verso se stessi, il tentativo instancabile di scoprire la nostra verità interiore, il Cristo…, ha un’esistenza autonoma, esiste per noi e malgrado noi, niente potrebbe abbassarne il valore, niente saprebbe contaminarne l’essenza; il tradimento è possibile, non il compromesso; lei potrà rifiutare, ma non potrà annientare; è una torre inespugnabile; è una regola che le nostre parole, le più astute delle nostre parole, sarebbero incapaci di alterare; è la sola realtà invariabile, e perciò venerabile, in un mondo che conosce tutta la gamma delle variazioni; il nostro conforto e il nostro riparo, la nostra armatura…» Queste parole, vorrei averle potute dire a Jorge Zuñiga Cordero, che si è ucciso per non aver saputo affrontare il sudiciume di questo mondo «molto crudele!». ” 

 

 

 

 

 

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L’Altro.

Nel 1964 esce in Francia L’aigle aztéque est tombé  (L’erede di Montezuma  nella versione italiana) lo straordinario romanzo di Carlo Coccioli incentrato sul tema  che, esattamente Montezuma-miniaturavent’anni dopo, Tzvetan Todorov  affronterà  nel suo celebre saggio La conquista dell’America. Il Problema dell’Altro.

codice messicano 1

Per entrambi l’Altro assoluto, l’Altro per eccellenza, è quello che si rivela agli spagnoli e all’Occidente tutto con la scoperta-conquista dell’America e in particolare del Messico : uno sconosciuto Mondo Nuovo, terra di grandiose e misteriose civiltà oltre le  Colonne d’Ercole di cui mai nessuno aveva sospettato l’esistenza. Ma Coccioli  ha osato qualcosa di non mai tentato prima : mettersi – con tutti i più sensibili strumenti letterari, storici e psicologici – direttamente nella pelle dell’Altro. Non limitandosi a cercare di conoscerlo, capirlo , rispettarlo o amarlo, ma proprio sforzandosi di calarsi completamente nella sua mentalità e realtà . Rovesciando la prospettiva  usuale, nel suo romanzo Coccioli  ha assunto in toto il punto di vista dell’Indio conquistato nella persona dell’ultimo imperatore azteco che narra in prima persona la fine del suo universo, riuscendo a trasmetterci tutto lo stupore, lo sgomento, i dubbi e le paure di un popolo di fronte ai potenti esseri alieni venuti dal mare. E l’immersione nella lenta, fluviale narrazione del protagonista, soggettiva e  creativa, ma solidamente fondata sui documenti dell’una e dell’altra parte, corrodendo  la corazza dei pregiudizi sedimentati, ci consente di vedere per la prima volta con occhi ingenui e limpidi l’umanità dell’Altro.

 

 

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Passaggi – come note – dal libro UN SUICIDIO di Carlo Coccioli.

carlo-coccioli-copertinadi GIAMPAOLO DE PIETRO. In carteggiletterari.it

Mesi fa ho ricevuto, poco prima che andasse in stampa, questo romanzo breve dello scrittore Carlo Coccioli, figura che ho incontrato da adolescente con il suo Fabrizio Lupo (Rusconi 1978 – ritrovato tra i libri di mio padre in garage). Anni fa ho conosciuto il nipote di Carlo Coccioli, Marco Coccioli che, insieme alla moglie Margherita Bignardi ha intrapreso la magnifica decisione (mi piace anche definirla missione) di riportare alla luce i libri (scritti originariamente in tre lingue e da tempo irreperibili) dello zio, che “ha vissuto e svolto un’intensa attività di scrittore e giornalista su due continenti” (così, la nota biografica in terza di copertina). Ecco, UN SUICIDIO ha per tema “una conseguenza” a Fabrizio Lupo. Non trattandosi di una recensione, che non sarei neppure in grado di sostenere, decido “deliberatamente” di non dire nulla sulla storia scaturita appunto dallo “scandaloso” romanzo che tanto mi colpì in quella prima sofferta lettura (e che “consegnai” come libro-scoperta ad alcuni cari amici, almeno una decina di anni dopo). Ho piuttosto tracciato alcuni passaggi (forse paesaggi, scusatemi il gioco di parole-imparentate) che avevo annotato quando Marco Coccioli mi inviò il documento contenente Un suicidio letto con molta emozione e convinzione. Un suicidio, tradotto per la prima volta in italiano da Margherita Bignardi, potrebbe coinvolgere tanto da decidere di procurarsi “deliberatamente”! una nuova edizione di Fabrizio Lupo, ed anche gli altri libri dell’autore, che le edizioni PICCOLO KARMA stanno riportando alla luce e alle stampe con la bellissima trovata   (oltre quella del nome delle edizioni, tratto per l’appunto dal titolo di un libro-diario spirituale di Carlo Coccioli – ripubblicato da loro di recente -, incentrato sull’amore per i suoi cani, amici e compagni di vita – forse anche figli) di dedicare le copertine alla passione pittorica dello stesso Coccioli, così ogni libro ha un suo dipinto “in offerta”.

***

“C’era soprattutto questo: che i legami erano innumerevoli, che nessuna cosa era soltanto se stessa, che tutto era contemporaneamente altro e che ognuno era gli altri, ecc., per l’infinità del tempo e dello spazio.”

*

“Adesso, il vecchio guardava Fabio senza una parola, e Fabio lo guardava a sua volta, anche lui senza parlare. Nel patio «risuonava» una serenità così perfetta che non era di questo mondo, sì, era un suono, e coinvolgeva il cielo e la terra. Un rumore d’acqua, simile a un rumore di ali, veniva da non si sa dove, non dalla vasca, però, la cui acqua era stagnante. Quanto all’uccello nella sua gabbia di vimini, adesso canticchiava.”

*

“ — Incomprensibile? Sicché lei non ha mai conosciuto della gente al di là della comprensione?”

*

“L’eleganza è la mia mania. Ma non pensi che, di tutte le manie, l’eleganza sia la meno offensiva?”

*

“ — Dove vorresti essere?

— A Parigi, in Cina, ovunque. Ma non qui, non qui!

— E ciononostante tu adori questo paese.

— Perché è sensibile a Dio più di qualsiasi altro paese della terra.”

*

“ — Non voglio sapere cosa gli hai chiesto, voglio soltanto sapere che cosa si può chiedere ai morti. Ma, anzitutto, gli si può chiedere qualcosa?

Ridendo, Felipe scoprì i suoi dentini bianchi e aguzzi.

— A chi, se non ai morti?”

*

“ — Jorge Manrique. Suo padre, il maestro di Santiago, è morto. Ne canta la morte. Tutto passa: sola resta la Morte con la sua freccia. Ma…

— Ma?

— È che non c’è solo il lato della Morte, — mormorò Fabio. — C’è il lato della vita.

— La vita…

E mai si era sentito così poco ridicolo.”

*

“Proprio come ci sono degli occhi che non vedono che gli oggetti lontani, così ci sono degli occhi che percepiscono soltanto le realtà invisibili: i miei, per esempio.”

 

*

“ — Non hai paura?

— Un po’, Pedrito. Ma la paura è fatta perché chi la prova possa vincerla.”

 

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Voilà, il quiz è risolto!

 

Referendum per un titolo, articolo di Carllo Coccioli, pag.1.bis- ritaglio colonnaPaola Ricci, giovane amica di Carlo Coccioli custode di mille ricordi e ritagli di giornale, ha risolto il quiz nel modo più diretto e incontrovertibile. In questo articolo del 1994 per la Nazione di Firenze, che Paola ha ritrovato per noi, Carlo racconta:

La soluzione del quiz nell'articolo di Carlo Coccioli 'Referendum per un quiz'.

La soluzione del quiz nell’articolo di Carlo Coccioli ‘Il Fax dell’assente: Referendum per un titolo’.

“Hanno pubblicato un interminabile reportage sulla mia insignificante persona nella sezione B del mio stesso giornale, l’Excelsior.  ln un’antica fotografia mi vedo al centro di un dotto e allegro consesso fra Piero Bargellini e Renato Gianni, la dolce signora Bargellini a destra, e all’estrema sinistra, ritto davanti a un tavolino dove legge qualcosa, Giovanni Papini, irsuto e separato. Credo che fosse nel giardino dei Bargellini quando vivevano in via Bolognese. Io allegro (lo sono ancora, grazie a dio, scusa Paola), garrulo, falsamente disinvolto (magari in realtà sudavo di timidezza), raccontavo le mie glorie (come in un certo senso non smetto di farlo)…”
Grazie, Paola!
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Ogni morte per omofobia è un J’accuse!

ritratto di giovane nudo - di Carlo Coccioli

Il suicidio di un ragazzo di 21 anni, che decide di farla finita perché omosessuale . Si dirà che il ragazzo che si è suicidato a Roma, e gli altri due prima di lui – e tutti quei giovani gay e quelle giovani lesbiche che ogni volta che varcano la soglia di casa o di scuola stringono i pugni e i denti per fare i conti con una situazione che non hanno cercato, che non hanno voluto – era emotivamente fragile, magari con qualche altra motivazione, e via dicendo. La verità è che ogni morte per omofobia è un j’accuse diretto e senza appello non per chi, pur impegnandosi, sente di aver fatto poco per diffondere e difendere una cultura più inclusiva, ma per chi, proclamandosi portatore di verità assolute e non negoziabili, ha perso il contatto con la realtà, con il prossimo, e con la sua missione nel mondo, e non si smuove di un millimetro dalle proprie convinzioni neppure di fronte a una morte atroce come quella di un ragazzo di 21 anni che non ce la faceva più. Tutte queste persone hanno la piena responsabilità di quella parte dell’Italia di oggi, omofoba e razzista, che condanna a morte un giovane perché gay.”  Matteo Winkler, da Il Fatto Quotidiano del 28 ottobre 2013

Per questo Un suicidio di Carlo Coccioli è sempre, tragicamente, attuale. E vale mille saggi.

 

 

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Dove vola la colomba.

da Rapato a zero di Carlo Coccioli: una perfetta metafora del nostro tempo.colomba Picasso

FESTA DELLA PACE

a Juan Héctor Mendez

All’improvviso si ritrovò nella luce. Com’era stato il buio che l’aveva imprigionata, quanto era durato, e perché? Nel buio non vi erano stati alimenti e neppure acqua: aveva sete, aveva fame. Intorno e in basso c’era l’oceano tempestoso di centoventimila esseri trepidanti. Quello, dicevano, era lo stadio più grande del mondo. Probabilmente una menzogna della propaganda ufficiale; o un’esagerazione puerile; il solito nazionalismo esasperato, aggressivo, un po’ misero, dei paesi terzomondisti. Ciò non impediva che la moltitudine fosse davvero impressionante. Lei, accecata dalla luce, smarrita nel rombo dei suoni, ebbe paura.

Si mosse agitatamente, ma nessuno le prestò attenzione. Nell’immensa arena sfilavano le delegazioni dei cento e tanti paesi che avrebbero partecipato al torneo. Si trattava del campionato mondiale di calcio: solo che per giovani. Tutto ciò avveniva col consenso e sotto l’ispirata guida della potente federazione internazionale che reggeva con un’autonomia quasi sovrana tal genere di avvenimenti; ma il torneo non si sarebbe potuto effettuare se la più ricca fabbrica di rinfreschi imbottigliati del pianeta non avesse concesso il suo patrocinio e, of course, i suoi quattrini. «Beva Coca-Cola» scritto in… quante sono le lingue del pianeta Terra? Pare che la Bibbia possa leggersi tradotta in più di quattrocento lingue. In quante versioni si legge «Beva Coca-Cola» o la formula equivalente?

La folla rumoreggiava, mentre sullo sterminato prato verde, a dire il vero più giallo che verde, per la stagione secca, e abbastanza sudicio, facevano circonvoluzioni ballerini folclorici fingendo, i maschi, un maschismo che quasi sicuramente non dimostravano nel corso delle loro esistenze quotidiane. Gallettini nell’aspetto, e nella sostanza galline; non è questo il maschismo? Il «macho-man» che offre distrattamente le natiche, quasi per inavvertenza, come addormentato, o sottratto a ogni responsabilità dai troppi bicchieri opportunamente bevuti… Maschismo maschera: ma questa è un’altra storia. Stavamo parlando di paura.

Sì, ebbe paura, e si mosse agitata, e molte mani si tesero verso di lei, non sapeva se per invitarla o per scacciarla. Era un mondo confuso. Cos’era in realtà? Lei non era atta, si capisce, a farsi delle domande. Sentiva, avvertiva, sopportava, pativa; e basta. Inutile aggiungere che aveva il perfetto privilegio del dolore. In quanto a definire se avesse o non avesse coscienza… Cos’è, in fin dei conti, quello che chiamiamo «coscienza»? Se è sapere che si sta soffrendo, non c’è essere vivente che non abbia coscienza. Manca forse, dal punto di vista della logica (della logica del genere umano), la sofisticazione del dolore «descritto». Ma anche questa è un’altra storia.

Duecentoquarantamila braccia si tendevano verso il cielo in un tripudio idiota. Era un mostro. Aveva il mostro coscienza di quanto stava facendo? È probabile di no, per lo meno stando al concetto normale che della cosiddetta coscienza possiede il genere umano.

E lei aveva aperto gli occhi, e visto la luce per la prima volta, quante volte prima che la luce diventasse buio e il buio luce: giorni, notti, nel linguaggio del genere umano? Chissà. C’era la calda, inconfondibile presenza della madre. C’era l’alimento offerto in bocca. C’era la felicità fisica di essere. Ma, subito dopo, erano cominciati gli affanni di questa cosa che siamo. Che cosa siamo? Dove andiamo?

È da giurare che tali domande non se le facesse la colomba che, in mezzo ad altre tremila, era stata liberata da un’oscura prigionia per «festeggiare» con un ampio volo l’inaugurazione del torneo mondiale di calcio giovanile: questa meravigliosa manifestazione a favore della pace organizzata dalla Coca-Cola Inc. col beneplacito dei governi di quasi tutte le nazioni del mondo.

Una cosa certa: la colomba aveva una paura atroce e, fra le duecentoquarantamila braccia che si alzavano, ossia fra due milioni quattrocentomila dita che si muovevano come feroci insetti dementi, non scorgeva cinque centimetri quadrati su cui posarsi. Era assetata, affamata, atterrita, affranta. Svolazzò perdutamente, ma due milioni quattrocentomila dita la rilanciavano verso il cielo ostile. E l’urlo. Fra tante luci meccaniche, violente, la colomba, questo simbolo di pace, non sapeva se ciò avvenisse in quello che nel linguaggio del genere umano si chiama giorno o in quello che nello stesso linguaggio si chiama notte. Era notte, ma la colomba non lo sapeva.

Aveva un infinito dolore nella sua essenza, e non tentò di resistergli. Nel suo incubo intravide una fiamma: era la Torcia della Pace fra i Popoli della Terra, una luce sacra. La colomba dovette sentire che «quello» l’avrebbe distrutta, ma era l’unico, proprio l’unico posto su cui posarsi, e lei era troppo, troppo affranta, sicché vi si posò, morendo immediatamente bruciata.

 

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Un suicidio, un delitto perfetto

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“Il racconto del quotidiano El Sol così come mi arrivò. A questa disgraziata avventura ho consacrato il romanzo (in francese) ‘Un suicidio’ pubblicato inizialmente da Flammarion, a Parigi, nel 1959. Uscì tradotta mediocremente in spagnolo a Barcellona, editore Luis de Caralt, nel 1963. Uscì in tedesco, ‘Ein Selbsmord’ con l’editore Ullstein. Poi, non so.” (Nota manoscritta di Carlo Coccioli in Itinerario nel caos. )

Un suicidio di Carlo Coccioli

Un suicidio di Carlo Coccioli

Siamo orgogliosi di presentare, per la prima volta in italiano, Un suicidio, un originale romanzo giallo scritto da Carlo Coccioli nel periodo della sua gloria francese e caduto presto – non è dato di sapere perché – nel dimenticatoio. Testo di sempre bruciante attualità,  Un Suicidio uscì in Francia nel 1959 sull’onda lunga di Fabrizio Lupo, quell’inno all’amore omosessuale nel quale alcuni ragazzi trovarono, paradossalmente, una sponda per togliersi vita:  tra questi, un ventenne messicano che volle dare al suo olocausto il valore di una testimonianza. Coccioli la raccolse; per anni ci meditò, rimuginò, si macerò, ne parlò in più punti del suo Journal (i capitoli da noi pubblicati in appendice), per arrivare a farne il tessuto connettivo di un’intrigante detective story a sfondo filosofico-morale culminante in una sorta di ambigua catarsi.

Come avverrà più di vent’anni dopo ne Il nome della Rosa di Umberto Eco, la storia ruota attorno a un libro fatale. Ma in questo caso non si tratta soprattutto di un geniale espediente narrativo; come disse altrove Coccioli, “tieni presente, lettore, che questa non è solamente letteratura”. Qui, in questo congegno perfetto, si avverte in sordina, come un basso continuo, velato dalla distanza, stemperato dalla tenerezza e dall’ironia, il dolore, l’orrore provato dallo scrittore per la morte assurda di quel giovane, così come per i tanti, troppi crimini perpetrati contro i diversi e i derelitti, allora e sempre, nel nome del Bene.

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Les écrivains perdus de Modiano

” Modiano ressuscite les titres de romans que personne ne lit plus, Le temps des rencontres de Michel Zéraffa ou Fabrizio Lupo de Carlo Coccioli, parus il y a un demi-siècle. Des noms comme autant de questions auxquelles le roman répond, provisoirement. »   Isabelle Falconnier, Modiano le retour eternel

fabrizio lupo prima edizione franceseModiano    “Le rêve et le mystère ont leur part dans ce roman à la mélancolie aussi insondable que délicate. Modiano cite des titres de romans oubliés en occultant leurs auteurs (Michel Zéraffa, Carlo Coccioli), leggi tutto…

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“Nessuna famiglia decente scuote il suo albero genealogico senza che cada, al suolo inorridito, almeno un sodomita.”

Provocato indirettamente da una lettrice di Excelsior, nel 1987 Carlo Coccioli affronta di nuovo, a viso aperto, il “tema scabroso” dell’omosessualità. Riesaminandone in un lungo articolo gli aspetti vecchi e nuovi, dalle aperture della società occidentale contemporanea quelle del teologo Hans Kung, dalle posizioni retrive di papa Woityla, alle sorprendenti resistenze degli Alcolisti Anonimi e ai comportamenti estremi di certe frange del mondo LGBT.

mio albero genealogico sfumato ai bordi leggi tutto…

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De l’amour. Maudit

En 1952, en pleine gloire catholique, Carlo Coccioli provoqua l’horreur de ses éditeurs français en exigeant la publication de son nouveau roman  Fabrizio Lupo : le premier document religieux sur l’amour homosexuel. Une trentaine d’années avant que des théologiens inquiets la posassent dans les bonnes formes, Coccioli lançait au visage de Rome la question troublante (à laquelle on n’a pas encore répondu) : Puisque d’un côté Fabrizio est définitivement homosexuel, et que de l’autre il est et veut rester catholique, dans quel ordre lui est-il permis de vivre ? leggi tutto…

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