Cronaca privata di venerdì 4 novembre la mattina

 

Carlo-tra-i-tetti

Mi ero addormentato soltanto verso l’alba, cullato e al tempo stesso vagamente

turbato dal crepitare che sullo sfondo di un ruggito sordo, ininterrotto, inesplicabile,

faceva la pioggia percuotendo il mare di vecchie tegole da cui è avvolto il mio attico di

Oltrarno a due passi da Palazzo. Pitti. Sognavo una moneta di argento da cinque lire;

bambino in un villaggio della Cirenaica, ogni 4 novembre la ricevevo da mio padre un,

ufficiale, in alta uniforme sul cavallo bianco che scalpitava fuori della porta di casa; io

ero persuaso che di quelle medaglie, di quelle spalline dorate, e della sciarpa azzurra,

mio padre se ne adornasse perché era San Carlo, «la mia festa». Bruscamente mi

svegliò il telefono. Guardai l’orologio: quasi le nove. L’inesplicabile ruggito

aumentava d’intensità; dalle finestre entrava una luce livida; continuava a piovere, a

crepitare. “Corri ad avvertire Juan” – mi disse, incrinata dall’inquietudine, la voce di

Manola Taddei, che sta di casa sul lungarno Torrigiani. – “Il fiume non tarderà a

superare le spallette, se già non le ha superate!” Insonnolito, imbronciato, di mala

voglia, e con in testa l’immagine ostinata della moneta da cinque lire abbellita dal

profilo di Vittorio Emanuele III per grazia di Dio e per volontà della Nazione re

d’Italia, mi vestii alla meno peggio e andai a destare a mia volta il giovane Messicano

che quattro giorni prima aveva inaugurato una bottega-galleria stracolma di prodotti

artigianali della sua patria proprio dove via dei Bardi incontra la costa dei Magnoli: a

otto o nove metri, insomma, dall’Arno. E insieme scendemmo per la strada.

Sotto la pioggia fitta, via Guicciardini era in preda a una certa confusione, meglio: a

una concitazione insolita. Riuscimmo a ottenere un espresso nella pasticceria Maioli.

Munita di ombrelli e impermeabili, una clientela dissimile da quella di ogni giorno

divorava le eccellenti paste, che stavano per finire, raccontando e raccontandosi,

molto animata, come nel corso della notte, alle due, alle tre, i gioiellieri del Ponte

Vecchio, allarmati dalle guardie giurate, avessero portato via dalle loro secolari

botteghe le mercanzie più preziose. Proseguendo il nostro breve cammino, Juan

Méndez ed io giungemmo alla piazzetta Santa Maria Soprarno dove, in una specie di

seminterrato del palazzo Bargagli-Petrucci, si trovava – miracolo di delicato

surrealismo, di sensibilità amorosa – il negozio nato, più esattamente neonato, sotto

l’egida delle autorità messicane. A sinistra guardando la vetrina, la scalinata che

ripida affronta le pendici del Boboli; a destra, l’Arno. Prodigiosamente elevatosi quasi

fino al filo delle spallette, il fiumiciattolo fiorentino mi portò alla mente, con

veemenza, il ricordo acceso di alcuni fiumi del Tropico, però non tanto per le sue

nuove dimensioni e per il suo impeto, che pure erano impressionantissimi, quanto

per la maestà acquisita: denso, minaccioso, bellissimo, l’Arno si era mutato, durante

la notte, in un fiume da secondo giorno della Creazione. Una spessa cortina di pioggia

lo univa al cielo fosco che lo sovrastava.

Le onde gialle trascinavano botti, tronchi d’albero, una persiana splendidamente

verde, qualche porta, due quadri, un cassettone. Quindici o venti persone, immote,

guardavano. Sull’altra riva, gli Uffizi svanivano in una foschia violacea. Salvo quei

passanti, non c’era nessuno: non un pompiere, non un soldato, non un poliziotto,

nemmeno un vigile urbano. Via dei Bardi, dai negozi chiusi per la festa, correva

parallela al fiume, come aspettando di riceverlo. Noi entrammo nel negozio

messicano, immergendoci in un’esaltazione di colori che nella tetra cornice del

momento mi fecero l’effetto di un grido. “Qué vamos a hacer?“, mi domandò Juan,

impassibile. “Portiamo su quel che si può “, gli risposi indicando l’angusto mezzanino

del locale. Senza abbandonare il fiume con lo sguardo, ci mettemmo all’opera. Credo

che fu verso le undici, ma mi posso sbagliare, che la prima ondata scavalcò il

parapetto di cemento e di mattoni all’angolo del ristorante “Alfredo”. Poi una

seconda, poi una terza ondata più irruente, e via dei Bardi in un istante divenne

fiume. Sulla soglia del negozio dove noi ci davamo da fare, i curiosi in sosta, coi loro

impermeabili tristi, i loro ombrelli neri, tendevano i lunghi nasi fiorentini, gli occhi

acuti e civili, le labbra scettiche, e quel loro raro, deprimente silenzio, verso il

fiumiciattolo impazzito, e dalla pazzia reso gigante.

A mezzogiorno via dei Bardi era un fiume che correva parallelo all’altro, al gigante.

Mille rivoli, sfondando finestre, porte, saracinesche, lo alimentavano uscendo

impetuosi dalle botteghe che da oltre mille anni fanno siepe all’ Arno, sul cui stretto

letto si affacciano. Aiutati da Manola accorsa, Juan ed io non ci stancavamo di portare

su, sempre più su, cose leggerissime ed effimere, fiori di carta, animalucci di

terracotta e di cera, sapienti mosaici di fili di lana, «occhi di Dio», frammenti di

corteccia d’albero ingenuamente dipinti; ma nella stanzuccia del mezzanino,

purtroppo, non ci entrava più nemmeno la coroncina di paglia, tre grammi, un

centimetro quadrato, di un Santo Cristo di Tzintzuntzan. Tozzo, protervo, dominava

la scena un grande idolo preispanico di argilla grigia, il Vecchio Signore, dio del fuoco.

E la gente, sulla soglia, a tendere nasi lunghi e sensibili verso il fiume che si

moltiplicava, verso il fiume che berciava come mai noi Fiorentini abbiamo berciato

nel corso della nostra storia; finché l’acqua, all’improvviso, non si riversò nella

piazzetta, occupandola selvaggiamente tutta; i curiosi si precipitarono verso la rampa,

si sistemarono sulla scalinata che ascende le pendici del Boboli. “Salvatevi, – ci gridò

un giovanotto – potete affogare! “, e allora Juan pronunciò le seconde parole della

mattinata, disse: “Lo que Dios quiera “. Così, quasi a spintoni, mandammo via Manola

e noi due rimanemmo là, con l’acqua fredda, limacciosa, e coperta di nafta, che prima

ci giunse alle ginocchia, naturalmente, poi all’inguine, e poi, stranamente meno

fredda, ci coprì fino alla cintola. Il giovane Messicano somigliava all’idolo azteco, ma

teneva stretta nella mano destra, così stretta che la frantumò, una colombina di

guscio d’uovo e di cera: altri cinque grammi di paziente lavoro. Quando poi l’acqua,

ormai tiepida, ci arrivò alla gola, uscimmo nuotando e anche noi raggiungemmo, più

neri di nafta che gialli di fango, la rampa dove tacita, pietrificata, stava la piccola folla.

 

Venerdì 4 novembre il pomeriggio e la sera

 

Andammo a casa e io mi spogliai, mi avvolsi in una coperta, mi sdraiai sul letto. Non

c’era più elettricità, il telefono non funzionava, invano avevo aperto, uno dopo l’altro,

i rubinetti dell’acqua. Il cielo si faceva più denso, più ostile, e il rombo cresceva.

Accesi una candela e, sul letto, mi misi a leggere la Bibbia tradotta dall’ebraico da

Louis Segond. No, non cercai il passaggio sul Diluvio Universale: l’idea del fango mi

ossessionava più che l’idea stessa dell’acqua; cercai un passaggio sul fango. Lessi

Esodo 1:13-14, dove è scritto che gli Egiziani fecero la vita amara ai figli d’Israele,

costringendoli, immersi nel fango, a fabbricare mattoni.

Uscii verso le quattro, cosa che mi fu difficile perché l’androne del palazzo era

occupato da uno strato di nafta che si estendeva probabilmente su tutta la larghezza

della strada. Risalii i sette piani, cercai senza trovarlo un bastoncino, presi la scopa,

tornai giù e con essa tentai, meglio esplorai, l’altezza della pestilenziale palude che mi

separava dal mondo. Saranno stati ottanta, novanta centimetri. Tornai su, chiamai il

mio cane, lo presi sotto il braccio, poi, giù di nuovo, nell’androne buio, me lo sollevai

sul capo e penetrai piano piano dentro la nafta, dentro il fango. Il cuore del mio cane

mi batteva forte fra le mani. Traversammo piazza Pitti verso via Guicciardini; e ci

dovemmo fermare.

Via dello Sprone, via Toscanella, via dei Ramaglianti, più in là borgo San Jacopo, non

erano che un intricato, barbaro dedalo di gonfi torrenti anneriti dalla nafta. L’acqua

aveva strappato il chiosco del giornalaio all’angolo del Ponte Vecchio; quanto al

ponte, ebbi l’impressione, nonostante l’ombra, ch’esso fosse quasi totalmente

sommerso. L’acqua trascinava mobili, porte e finestre, macchine; ammucchiava

collerica la sua preda contro le cantonate. Secondo le leggi naturali, finiva col

ritrovare sempre, nel labirinto dei vetusti casamenti, un cammino parallelo al gran

fiume: che scendesse a valle. Col mio cane nuovamente sotto il braccio, tornai

indietro. Avevo lasciato l’automobile nella parte alta di piazza Pitti; vi feci salire il mio

cane, vi salii anch’io e prendemmo la strada di Porta Romana. Ormai era notte. Sotto

l’arco di Porta Romana m’imbattei nella prima autorità: un graduato di non so quale

corpo, il quale, dichiarando e ridichiarando che aveva ricevuto ordini da un certo

senatore, avvertiva che chi avesse varcato quel limite non avrebbe avuto il diritto di

rientrare in città. Lo aveva stabilito il senatore, il senatore, il senatore.

Non importa: uscii e percorsi i viali fino al piazzale Michelangelo. Mi precedevano e

mi seguivano, lente, altre automobili. Appoggiata contro il parapetto del piazzale, una

folla guardava. Era notte, tutte le luci erano spente, pioveva senza interruzione.

Firenze era abbandonata alla furia cieca del suo fiume impazzito. Non una voce che

consigliasse, non un riflettore; non suonava una campana; non c’era un soldato;

nessuno aiutava nessuno. C’era il silenzio della gente. Vociante, gesticolante, ironico,

aggressivo, il popolo fiorentino assisteva al proprio dramma, ora, immobile e in

silenzio. Lasciava, immobile, in silenzio, che vociasse e gesticolasse il fiume impazzito.

Tutto era fango e nafta, tutto era fiume.

Poi sentii una voce che diceva: “L’Arno vuol bene a Firenze “. Quasi lo si

scongiurasse: quasi gli si rammentasse l’antico patto di amore.

Tornai indietro, e a Porta Romana il graduato continuava a parlare, ossessivamente,

del senatore. Lasciai l’automobile dove potetti e m’incamminai a piedi, col mio cane,

per via Romana. L’oscurità era così profonda che i passanti, per non scontrarsi,

emettevano suoni brevi, gutturali. Fasciato dalle tenebre, più intuibile che visibile,

Palazzo Pitti era una massa colossale e magnifica: per la prima volta da quando lo

avevano edificato, credo, era bello. Risprofondai – con fra le mani il cuore palpitante

del mio cane – negli ottanta centimetri di nafta e di fango di casa mia, risalii i sette

piani sfiorando il muro, nelle tenebre. Avevo voglia di piangere su Firenze, e poi no,

non volevo piangere. Con la stessa ossessione con la quale il graduato di Porta

Romana parlava del senatore, io pensavo a Dio. Suppongo che detti da mangiare al

mio cane; so che poi mi buttai sul letto. Accesi la solita candela, riapersi la Bibbia.

Pensavo a Dio e – siccome non avevo alcuna idea circa l’estensione geografica del

disastro – intuivo un significato arcano, ma rivelatore, nel fatto che il centro della

rovina fosse il cuore superbo della città, il ponte Vecchio da secoli ricchissimo,

mercanti grassi, i gioiellieri opimi, i commissionari che comprano dagli artigiani a

cinque ciò che rivendono a venti agli Americani; e allora comprendevo, o quasi, Dio e

il Suo flagello. Perché “Io sono un Dio… che punisce l’iniquità dei padri sui figli fino

alla terza e alla quarta generazione “.

Ma poi pensavo agli artigiani, alle loro squallide botteghe devastate, ai loro figlioli

senza più nulla da mangiare, alle umili gioie di coloro il cui Regno dei Cieli è

costituito qui in terra da un motorino, un apparecchio televisivo, un piatto di baccalà

il venerdì, una partita di calcio ogni tanto, e mi sembrava di vedere le mani ruvide e

gli occhi acquosi delle loro donne, mi sembrava di sentire il peso della loro lotta

quotidiana per vivere, o per illudersi di vivere, su un pianeta ogni giorno meno

umano; allora, davanti alla distruzione di questo fragile Regno dei poveri, avevo la

tremenda impressione di non comprendere più Dio e il Suo castigo. Però, nel libro di

Giobbe, cercai il passaggio dove l’Eterno, benedetto sia il Suo nome, risponde senza

rispondere alle assillanti domande dell’uomo ferito dalla sorte: “Chi dunque ha creato

– gli dice presso a poco – l’ippopotamo e il coccodrillo, tu od Io? Chi è mai colui che

ottenebra i Miei disegni con discorsi privi d’intelligenza? “E così mi addormentai.

Sabato 5 novembre, 9 di mattina

La mattina dopo, non ricordo se ci fosse il sole: no, credo che non ci fosse.

Accompagnai Juan fino alla bottega, cioè fino a quel poco che restava della bottega.

Fuggito dal carcere di Bologna, ho avuto la sinistra allegria di rivedere, ai primi di

settembre del ’44, Firenze dopo la vigliacca distruzione dei suoi ponti da parte dei

Tedeschi: ciò che vedevo ora era più atroce. Ciò che vedevo andava oltre la possibilità

di parlarne, di descrivere. Piuttosto che dallo sbigottimento che colmava gli occhi

della gente, piuttosto che dalla dignità dei colpiti, nessuno dei quali piangeva,

nessuno dei quali imprecava, il mio spirito fu ferito – fu esaltato – dall’umiliazione

inflitta alle cose fabbricate dall’uomo e all’uomo care: dal senso, dico, della

«peribilità» delle cose di questo mondo, dalla loro infinita debolezza. I damaschi più

pregiati, intrisi di fango e di nafta, si ammonticchiavano come i più miserabili cenci

contro le saracinesche sfondate, contro le automobili con le ruote all’aria. I «pezzi

unici» degli antiquari di via Maggio, sbatacchiati contro i muri, contro i portoni

divelti, erano ridiventati – nell’essenzialità dell’ora – ciò che siamo tutti, ciò che è tutto

qui sulla terra: polvere bagnata, fango. Eppure, se non temessi di fare della

letteratura intorno a questo gran dolore comune, vorrei scrivere che sotto tanto

fango, così sconvolta com’era, così stupefatta, così profondamente immiserita,

Firenze soverchiata dal cielo giallo, Firenze sul mare giallo delle sue strade e delle sue

case, questa mia sciagurata Firenze era bella e degna e nobile come non lo era mai

stata: spettro di sé stessa, la si sarebbe detta percorsa da un soffio divino…

E Juan ed io riuscimmo, dalla saracinesca sfondata, a entrare nella bottega e, come

altri centomila, come altri duecentomila Fiorentini, ci mettemmo subito al lavoro.

Non c’era acqua potabile, non c’era elettricità, non c’era nulla, faceva freddo, avevamo

fame, e apparentemente non eravamo che fango nel fango, polvere bagnata nella

polvere bagnata: ma noi due, come altri centomila, come altri duecentomila

Fiorentini, avevamo, dentro il fango di cui siamo impastati, l’anima. Per cui tutti,

tutti, sotto la spinta dell’anima che ci fa simili al Dio costruttore, tutti ci mettemmo al

lavoro; e noi due traemmo dal locale di piazza Santa Maria Soprarno, con una pala

rotta e un secchio di plastica sfondato, non so quanti quintali di melma, non so

ettolitri di acqua, una decina di pesci morti, un groviglio di radici, una bambola di

celluloide, una persiana piccina e tre pesci vivi che, guizzanti, restituimmo all’Arno

ormai rinsavito: meno male avevamo l’Arno vicino! E continuiamo a lavorare, ora,

stasera, domani, dopodomani, perché la gloria dell’uomo sempre, e oggi degli uomini

di Firenze in particolare, è, dato che si possiede una anima, di continuare a credere

nella speranza in mezzo alla disperazione.

 

Prato alla pratese

 

Dimenticheremo Prato l’iraconda e fervida e generosa sorella di Firenze? No: diciamo

qualche parola su Prato, città di cenci e di telai, città di Malaparte e del vescovo

Fiordelli, città i cui industriali capitalisti alimentano – se è vero quel che si sussurra –

il partito comunista: e perché d’altronde non dovrebbero farlo? Prato senza uguali,

Prato solo uguale a sé stessa. È stata magnifica. Lo scellerato venerdì 4 novembre, che

ha visto l’Ombrone per non essere meno dell’Arno superare gli argini in ben sette

punti e riversarsi impetuoso sulla piana sommergendo quattro o cinque frazioni

(Tavola, Castelnuovo, Iolo, San Giorgio a Colonica), quel giorno maledetto ha trovato

dunque la città, amministrativamente parlando, in piena crisi: crisi di giunta

comunale, le solite beghe fra comunisti e socialisti, eccetera. Prato, però, ha reagito

alla pratese: sangue toscano mescolato con quello venuto al seguito di un capitano di

ventura, poco meno di mille anni fa, da qualche vallata alpina: fatto sta che quello

stesso funesto venerdì, mentre Firenze era immersa nello sgomento, a Prato si riuniva

la giunta, non più divisa, e venivano avvertiti personalmente, uno dopo l’altro, perfino

i consiglieri. E alla pratese, senza tanti discorsi, si sono messi al lavoro. Prima di

tutto, si sono radunati i galleggianti, i mezzi anfibi: se ne è minacciata la requisizione,

ma non ve ne è stato bisogno. La città intera, dal vescovo Fiordelli all’adolescente del

rione San Paolo iscritto alla gioventù comunista per tradizione di famiglia, ha avuto

quel “soprassalto” di cui ogni tanto, a ragione o a torto, si parla dal ’58 in poi. Tutti

mobilitati, tutti volontari: perfino i “capelloni” locali, ché ce ne sono anche qui. Coi

galleggianti, senza perdere un’ora, si sono mandati viveri alla gente – i sinistrati sono

stati circa quattromila – che attendeva, con intorno il mare giallo impetuoso, agli

ultimi piani o sui tetti delle case coloniche. Ma non si è mandato soltanto pane e

qualche triangoluccio di latte: alla pratese, cioè prodigalmente, si sono confezionati

pacchi dentro i quali si è messo tutto: dalla scatola di carne ai biscotti mandorlati e al

vinsanto. Perché anche di biscotti mandorlati e di vinsanto vive l’uomo.

Alle tre e mezza del pomeriggio di quell’infame venerdì, Prato non aveva più contatti

con Firenze, sede della prefettura. Sabato in mattinata, in una specie di assemblea di

tipo medioevale e al tempo stesso ultramoderna, si riunivano le forze municipali: quel

che conta, dai sindacalisti anarcoidi ai rappresentanti dell’industria e della curia. E i

problemi sono stati affrontati alla pratese: con metodo e rapidità. Concentrare i

profughi in locali determinati; confortarli e ristorarli; liberare immediatamente la

campagna dal morbo delle carogne che galleggiavano sul fango (sono affogati circa

settecento capi fra bovini ed equini, oltre a un numero incalcolabile di suini, pecore,

polli e conigli); e poi, alla pratese, ossia con una generosità un po’ folle, ma bellissima,

si è partiti a recare altrove il proprio aiuto.

Prato è fatta così: quando dà, dà. Sono stati mandati soccorsi alle località vicine:

Campi, Carmignano, Poggio a Caiano, Compiobbi, San Donnino, San Piero a Ponti;

perfino a Firenze. A Firenze, sì, che i Pratesi “amano” a tal punto da non scrivere mai,

nelle loro carte intestate, “Prato (Firenze) “: scrivono “Prato Toscana” o più

superbamente ancora “Prato Italia”. E fanno un piacere alla Toscana e all’Italia,

naturalmente. La città dei cenci e dei telai, del povero Malaparte e del vescovo

Fiordelli e del sindaco comunista Vestri, ha organizzato colonne di autocarri: ha

mandato a Firenze roba da mangiare, acqua potabile, braccia; addirittura bambole e

cavalli a dondolo per i bambini che piangevano i loro balocchi annegati – erano tanti –

tutto con mezzi propri: Prato si ricostruirà coi mezzi propri: non ha bisogno di

nessuno, ha il sangue orgoglioso. Un viceprefetto inviato da Firenze non ha potuto,

metaforicamente, che levarsi tanto di cappello. Si è levato il cappello anche “La

Nazione” la quale, in uno scritto dove riafferma la sua fede anticomunista

(figuriamoci un po’), ha definito il “compagno” Vestri “semplicemente formidabile”.

Insomma: industriale, industriosissima, turgida di vita e d’inventiva, irta di macchine,

prodiga fino allo sperpero, furba come sette diavoli, splendidamente proletaria con

non so quante mai Ferrari e Maserati, Prato ha dimostrato ancora una volta di essere

una città di esseri umani, di avere proporzioni umane, di essere umana: diamogliene

atto. Grazie Prato.

 

Quindici giorni dopo, il momento del pessimismo

 

 

Due settimane fa, il diluvio su Firenze. Non durò quaranta giorni come quello biblico,

durò poche ore e tuttavia ha sconvolto quanto quello biblico, forse di più perché ai

tempi di Noè non c’era nafta da spargere per le strade, non c’erano automobili da

gettare una sull’altra contro le cantonate, non c’era una Biblioteca Nazionale da

allagare, non c’era un crocifisso di Cimabue da scrostare irreparabilmente, non

c’erano le porte del Ghiberti che hanno corso il rischio di sparire nella rovina per il

volgare fatto che – realtà, non fantascienza – sbatterono una nottata intera quasi

fossero le porte di una cucina qualunque dalla finestra spalancata.

Ora sarebbe il caso di fare il bilancio: è impossibile. I bilanci, per loro natura, devono

essere precisi; per essere precisi, hanno bisogno di dati; qui molti dati mancano e

alcuni dati mancheranno sempre: quelli, per esempio, che riguardano la donnetta di

via delle Conce, dalle parti di Santa Croce, la quale, davanti alla bottega annientata,

stava ferma con la scopa fra le mani, inutile, grottesca, e quando feci la sciocchezza di

domandarle come andava mi rispose inebetita: “Siamo alla fame “. È probabile che

esagerasse: nessuno è morto di fame fino a oggi qui a Firenze; al contrario ci hanno

soffocati sotto le forme di pane, ci hanno fatto fare il bagno nel latte in scatolette di

cartone. Latte e pane, pane e latte. Ma, come nessuno ignora, non solo di pane e di

latte vive l’uomo: ci vuole carne e speranza. La carne costa cara, più cara di prima; la

speranza, dopo i primi giorni eroici, comincia a farsi fievole. Siamo stanchi.

Oggi – ancora senz’acqua nelle tubature, e non ce ne sarà per un bel pezzo; in gran

parte priva tuttora di telefono, priva di luce elettrica; immersa nell’umidità, avvolta di

freddo – oggi Firenze sudicia di nafta, Firenze stracolma di terra grigia, mare di

polvere quando c’è sole, mare di mota quando piove, Firenze è diventata grigia di

dentro. Suppongo che abbia ritrovato intatte, nel disastro, le fonti amare del suo

millenario scetticismo. Sulle soglie delle botteghe devastate, i negozianti bellamente

chiamati mercanti dal sindaco Bargellini puliscono con un cencino inzuppato di

benzina il cassetto ritrovato fra la melma, i banchi contorti, qualche borsa di cuoio

avvizzito, i piatti dorati stile Dugento. Hanno le mani grigie e l’anima grigia. Anche se

non hanno letto l’Ecclesiaste, ri-inventano le parole della terrificante saggezza:

“Vanità delle vanità, – dice l’Ecclesiaste – vanità delle vanità, tutto è vanità “. E poi

inventano una barzelletta: quella del Fiorentino impaziente, frenetico, furioso,

insomma non come quei polentoni del Polesine che sopportano dieci alluvioni in dieci

anni e stanno zitti, il quale Fiorentino è andato a Roma, è penetrato gesticolando nei

ministeri, ha aperto porte serrate, vuole i danni, è stato alluvionato e vuole i danni, li

vuole immediatamente, a tutti i costi, e con una manata allontana gli uscieri

scandalizzati, finisce col trovarsi davanti a un pallido capodivisione: “Ma lei cosa

vuole? “, gli domanda l’eminente personaggio. “I danni, e subito! “, urla il Fiorentino

esasperato. “Vuole dunque essere servito prima dei dannificati di Pompei? “, mormora

l’altro, smarrito, con uno scialbo sorriso di rimprovero.

Fanno – senza entusiasmo – la coda davanti agli sportelli delle banche che presteranno

loro il denaro necessario alla ripresa. Ma il denaro ricevuto in prestito si restituisce, e

qui nessuno dubita che, in un modo o in un altro, lo si debba restituire con gli

interessi composti. Il Fiorentino è troppo vecchio per non sapere che accanto ai

poveri diventati atrocemente più poveri vi sono già, e ve ne saranno ancora di più in

un domani non lontano, i nuovi ricchi o i ricchi diventati insopportabilmente più

ricchi. Guerra e peste, chi si spoglia e chi si veste. I danni gravi, del resto, a Firenze li

hanno avuti non coloro che chiedono un prestito di cento milioni di lire – da restituire

in vent’anni con interessi al tre per cento, e da far fruttare durante vent’anni al dieci,

al quindici per cento – ma quelli che, rimasti solo con gli occhi per piangere, non

sanno compilare una denuncia per danni e, nonostante siano loro rimasti gli occhi,

non piangono nemmeno. Guardano, e basta.

Il mondo si è esterrefatto, il mondo si è commosso sulla gran pietà di Firenze. Che

bella cosa! Ho qui sulla tavola un primo pacco di giornali latino-americani. Uno dei

maggiori quotidiani di Città del Messico, Excélsior, pubblica in data 6 novembre otto

colonne in prima pagina: “Si abbassano le acque e lasciano rovina e fame a Venezia e

a Firenze “. Tale universale sincera partecipazione è altamente consolante, ma i

Fiorentini sono restii, per lo più, alle consolazioni. I primi giorni dopo il diluvio, la

gente si accalcava davanti ai pochi apparecchi televisivi in funzione, era avida di

ascoltare i bollettini trasmessi dalla radio. Oggi radio e televisione non interessano

nessuno. “S’è bell’e capito “, dicono i Fiorentini a mezza voce. Stando alle notizie, non

vi è chi non dia a Firenze molto più di quanto Firenze non abbia mai avuto: le

scolarette di Terni rompono i loro salvadanari, la turista inglese che è stata a Fiesole

nel 1908 manda due sterline, i professori di Harvard organizzano sostanziose collette.

Su Firenze dovrebbero piovere miliardi di lire, milioni di dollari: un altro diluvio. Ma i

Fiorentini sono troppo vecchi, troppo amari, e ora troppo grigi di fuori e di dentro,

per credere a questo genere di diluvi.

E poi a Firenze vi sono anche – davvero! – dei Fiorentini. Di quelli eletti; di quelli

morti quasi tutti a Gavinana; non i timorati bacchettoni del Granduca, che ai nostri

giorni fanno la riverenza ai turisti; quelli che non fanno la riverenza a nessuno, che

non sculettano davanti a nessuno, che non tendono la mano a nessuno; non

Fiorentessi, ma Fiorentini; i Fiorentini che, passata l’alluvione, si guardano bene dallo

scrivere in tre lingue sulle porte delle loro botteghe: “Aiutateci, help us, siamo

sinistrati, per piacere comprateci qualcosa, merci beaucoup, thank you”. I Fiorentini,

insomma, degni della Firenze ghibellina: non quelli che nell’alluvione vedono solo un

pretesto per vendersi più cari!

Comunque sia, trascorso il periodo eroico si tira avanti perché nell’insieme – veri o

fasulli, Fiorentini o Fiorentessi – siamo un popolo coraggioso che lava con uno

straccetto intriso di benzina il mobiluccio che si è potuto salvare quando la casa ci è

cascata sul capo. Se non siamo intelligenti, siamo furbi: distinguiamo. Distinguiamo

sempre. In via Maggio ho colto al volo l’affermazione di un certo antiquario dalle

gambe storte e dall’impermeabilino made in England. “Guardi, – diceva con voce

enfatica all’amico – facendo un calcolino modesto modesto io solamente in questo

posto che è qui ho perso qualcosa come duecentosettanta milioni di lire.” A un

vecchio alto e striminzito che gli passava accanto uscì dalla bocca sdentata un “Beato

lei! “. Tra una cosetta e l’altra, avrà perso, il vecchio, seicentomila lire. Ma erano

seicentomila lire con le quali viveva. Distinguiamo, Fiorentini, distinguiamo!

Serviti da uno stuolo di muratori e falegnami, i commercianti straricchi – non sono

poi tanto pochi – rimettono a posto i negozi famosi nel mondo intero. Ognuno fa quel

che può: amaro, sì, e scettico questo popolo di Firenze: ma non certo disposto alle

sconfitte. I ballerini del Comunale aiutano a ripulire le quinte squinternate aiutati a

loro volta dalle compagne in pantaloni da sci. Ogni tanto, impulsivamente, si apre il

rubinetto dell’acqua, poi si fa “ah! già” e si richiude. I venditori di recipienti in

materia plastica combinano affari d’oro. “La Nazione”, che per il modo franco e

arcigno con cui difende la città deve essere ringraziata anche da coloro che non

condividono i suoi principi politici, pubblica costosi annunzi pubblicitari consacrati ai

tempi che soffriamo: sono parecchie le ditte commerciali che con l’aria di fare un

piacerino a Firenze fanno un piacerone a sé stesse. I panni sporchi non si lavano più

in famiglia: bisogna andare a lavarli a Prato e qui fare la coda, coi gettoni in mano,

davanti alle odiose lavatrici automatiche. Si cerca affannosamente segatura. Dei

cinque o sei cigni bianchi con gusto discutibile posti in Arno credo da La Pira, ne sono

riapparsi tre, se i miei calcoli sono esatti: spauriti, melanconici, visibilmente affaticati,

e coperti di nafta: cigni neri.

Gli artigiani. Pare che quelli veramente toccati dall’alluvione siano alcune migliaia.

Signori, state attenti agli artigiani di Firenze; forse, di tutta la gente che vive qui, sono

i meno fiorentessi di tutti, sono i più fiorentini; di lieve importanza presi uno per uno,

diventano una cosa grossa messi insieme; e potrebbero, se volessero, fare la voce

grossa. È’ gente concentrata nelle proprie mani, quindi è gente pratica; non la si

adesca facilmente con le parole, non la si lusinga con la visita di alti e apparentemente

riconfortanti personaggi ufficiali. Potrebbero convertirsi, che so io? in «guardie

rosse»: fare la loro rivoluzioncina culturale. O più semplicemente smettere di fare gli

artigiani, perché no? emigrare in Svizzera, in Olanda, magari a Milano… Ora come

ora si annidano qui in Oltrarno, nel cosiddetto Centro Storico che tanto piace ai

turisti, fra muri del Medio Evo che puzzano di lezzo, di fatiche e di stenti: oggi al

fetore dell’indigenza si è aggiunto quello, non più gradevole, della disoccupazione e

della fame. La miseria non è un elevato concetto astratto come, forse, la Modestia e il

Pudore: concretissima, la si vede con gli occhi, la si palpa col tatto, è carne e sangue,

non ha nulla di letterario, fa ribrezzo. L’altro giorno ho saputo di una famiglia che

trascorreva le serate al buio – al buio oltre che al freddo e all’umido – perché non

aveva soldi per comprarsi le candele. Che cosa volete che me ne importi del Cristo del

Cimabue o delle porte del Ghiberti davanti alla realtà di cinque miei simili avvolti dal

nero perché fra tutti non riescono a raggranellare trecento lire?

 

Lettera a Zeffirelli, quello del documentario Burton su «Mrs. Smith dia un

dollaro please a Firenze».

 

 

 

 

 

 

 

Più penso al tuo lodato documentario, Zeffirelli, – e più lo vedo: l’ho già visto due

volte – e meno sono d’accordo con te, meno mi piace questo tuo lavoretto per il quale

ti aspettavi – ti aspetti – la gratitudine di Firenze l’ingrata. Come ti ho scritto, di due

una: o sei giunto troppo tardi per capire veramente ciò che è successo qui, e la lunga

assenza ha tolto a te (a me, no) quella carica di fiorentinità che può in ogni caso farci

intuire, nel pietoso amore, l’essenza del disastro. A parte alcune belle e orrende

immagini, prese chissà da chi nelle primissime ore, il tuo documentario è prolisso,

stancante, e soprattutto sbagliato: fa del dramma di Firenze quello, pur sempre

terribile ma non so se per disgrazia o per fortuna non prettamente nostro, di una

grande alluvione urbana e campagnola; e basta. Con un pizzico, naturalmente, di

letteratura: musiche antiche e l’antiretorica a parer mio assai retorica del mediocre

testo gentilmente letto da Burton con giacchettina bianca all’italiana. Ma il dramma

di Firenze, quello suo particolare, è stato un’altra cosa. In un primo momento ha

assunto l’aspetto surreale, quasi direi metafisico, di un dramma di cose

improvvisamente disumanizzatesi: vicoli, cantonate, acciottolati, fondi di bottega,

persiane e saracinesche e damigiane e banchi e automobili spente come giocattoli

rotti: cose create dall’uomo e dall’uomo, tutt’a un tratto, distaccatesi: dunque

impazzite, dunque orrende. Il tutto avvolto da una livida luce di silenzio – altro che

musiche di Roman Vlad! – l’atroce silenzio che il 4 novembre verso mezzogiorno,

dopo una notte urlante, minacciosa, interminabile, cadde sulla città,

disumanizzandola.

Nella disumanizzazione, nel silenzio, la città-spettro aveva – e il tuo documentario

non lo fa vedere, non lo fa sentire – una sua straziante, incomparabile bellezza.

E poi, subito dopo, sul dramma metafisico si è innestato quello umano: ma non tanto

il dramma dei canotti pneumatici che salvano la gente riparata sui tetti come in

Luisiana durante le piene del Mississipì, non tanto il dramma dei coraggiosi elicotteri

cinematograficamente portatori di viveri, quanto quello minuto, più lancinante, più

difficile, più inaccettabile, e in fin dei conti più eterno e universale, della stanchezza,

del freddo, delle vesti coperte di mota e di nafta, delle mani tese verso un detestabile

cartoccio di latte, degli occhi resi disperati dal presagio della miseria: tutto questo

popolo affranto che a me fa dimenticare, sì, i milioni di libri inumiditi della Biblioteca

Nazionale. Ma tu, Zeffirelli, in questi pianterreni sconvolti e grigi, poveri sempre

ma non mai così poveri come oggi, tu stando al tuo documentario non ti ci sei

soffermato: non hai tenuto conto del fatto che vi sono momenti in cui il più becero

degli esseri umani, il più infimo degli esseri viventi, è più importante della più

importante delle opere d’arte, dei libri, dei musei…Ed è peccato, Zeffirelli, che tu non

ti ci sia soffermato: se lo avessi fatto, certo saresti riuscito a commuovere

maggiormente quella cara benefica “Mrs. Smith” dalla quale Firenze – languidamente

assisa su una poltrona macchiata di nafta con un cencino in mano e un monte di

calcinacci fra le gambe – starebbe aspettando pazientemente, coi dollari e i pacchidono, la salvezza…

 

Caro Giorgio Albertazzi, cara Anna Proclemer:

 

Firenze sarà ciò che si dice che è: una cosa irritantemente a sé stante, superba,

sarcastica, amara, aggressiva, sassosa, tutti aculei – e speriamo che la nostra città sia

davvero tutto questo, Giorgio, speriamo che la nostra città non sia la Vecchia Signora

di Zeffirelli che attende il pacco-dono dalla voce di Burton e dal gesto cleopatresco di

Liz Taylor – e però io vi dico che Firenze è anche qualcosa d’altro. State a sentire. Era

sabato 5 novembre, saranno state le due del pomeriggio. Dalle sette del mattino, con

un secchio sfondato e una pala rotta, lottavo contro l’acqua, contro il fango, contro la

nafta, ributtando nel fiume impazzito, ormai placato, i pesci chi ritrovavo guizzanti

nel piano basso di un edificio sconvolto. Ero fradicio, avevo freddo, la sinistra luce

violacea mi accecava, pensavo ossessivamente al Dio della Bibbia, e avevo fame.

Avevo una fame da urlare, ma ero troppo stanco per rendermene conto. Allora, nel

grigiore livido, nel mare di mota, mi passò accanto – presenza viva in Firenze-spettro –

un Fiorentinuccio che avrà avuto quattordici anni. Pallido, col naso alato, le labbra

sottili, gli occhi acuti, teneva un grosso pane con le due mani e, forse perché non gli

reggeva il cuore dalla felicità di possederlo, sguazzava prodigiosamente in quel metro

di mota, quasi volando, per portare il suo tesoro a chissà chi. Mi vide, mi guardò; io

guardai il suo pane. E lui, Giorgio, Anna, lui deve avere afferrato quel che avevo negli

occhi: l’avidità di un uomo sfinito che si accorgeva all’improvviso, dopo

ventiquattr’ore di digiuno, che stava letteralmente sbavando di fame; e la vergogna di

farlo sapere. Si fermò di colpo. Distogliendo lo sguardo, spezzò il pane in due; era

caldo, soffice, forse glielo avevano dato i medici militari della vicina caserma di Costa

San Giorgio. “Tenga “, mi disse con amoroso sdegno; e subito riprese la sua corsa nel

fango. E io? Io a quel gesto, io con quel pezzo di pane in mano, io mi sono sentito

trasportare, mi è sembrato di volare fra il cielo e la terra, sulla città devastata ma

nonostante i Fiorentessi, grazie al Cielo, pur sempre sarcastica; affogata nella nafta

ma in fondo in fondo, grazie al Cielo, pur sempre aggressiva; ferita nel corpo e

nell’anima ma non del tutto, grazie al Cielo, piangente e rassegnata; di botto

poverissima, ma grazie al Cielo – scusi, Mrs Smith – non unanimamente con la mano

tesa: Firenze senza turisti, Firenze strafottente davanti ai pacchi-dono – e però, questo

è il miracolo! anche «un’altra cosa»: una cosa dolcissima. Sì: una cosa dolcissima.

Oggi, Natale, lasciate che io benedica quel Fiorentinuccio quattordicenne che sabato 5

novembre alle due del pomeriggio, nel mezzo della città devastata, in piazza Santa

Maria Soprarno, nel mezzo di questa città grazie al Cielo ancora cattiva, dette a uno

sconosciuto che sbavava di fame, con un pezzo di pane, la dolcezza.

 

Gennaio 1967: e ora?

 

Ora, durante un momento, lasciamo parlare la gente. Si tratta di gente presa a caso: vi

saranno fra di loro, quindi, e Fiorentini e Fiorentessi. Pazienza. E parleranno anche –

alla pratese – i Pratesi. Lasciamo parlare il popolo, che ha sempre il diritto di parlare: i

compilatori di questo volume si sono limitati a estrarre dai discorsi degli intervistati

ciò che a loro, in buonissima fede, è sembrato l’essenziale. Lasciamo parlare il popolo

e lasciamo parlare le immagini: poi basta.

Poi basta. Poi – per lo meno noialtri – dimenticheremo o più esattamente fingeremo di

dimenticare il tutto. Non parleremo più d’inondazione, di diluvio, di alluvione, di

castigo del Cielo, di piogge, di mota, di nafta, di stanchezza, di responsabilità,

miseria, della buona signora Smith, di Fiorentini diritti e di Fiorentessi ingobbiti dalle

riverenze: come se niente, insomma, fosse accaduto. “O che gli è successo qualcosa? “

“Ma icché la dice: unn’è successo niente! “

 

Chi ha avuto ha avuto, chi ha perso ha perso, chi è affogato è affogato, chi ha arraffato

ha arraffato, chi s’è bagnato s’asciughi: punto e basta, qui unn’è successo niente.

Ammettendo per assurdo che sia avvenuta davvero, l’inondazione d’altronde non ci

avrebbe procurato che gioie e soddisfazioni insigni. Siamo stati soli soli durante due

giorni, il che è pur sempre – filosoficamente – un beneficio impagabile. Abbiamo

bevuto milioni di triangolucci di latte: il latte fa bene alla salute. Le immersioni nel

fango sono eccellenti per i dolori reumatici. I «capelloni» hanno salvato la Cultura

salvando i volumi della Biblioteca Nazionale. Franco Zeffirelli ha consacrato Firenze a

Mrs Smith: viva la nostra simpatica madrina di diluvio, viva la fata madrina! In

Messico stanno facendo collette davanti alle chiese. Perfino dal remoto Sud-Africa ci

hanno mandato vitamine. Bargellini è stato proclamato «cuore d’oro 1966». La

Camera di Commercio ha distribuito un’ingente quantità di biglietti da mille. Le

cantine sono state ripulite dalla secolare sporcizia. Il Papa è venuto a farci visita, il

che non è poco. Tutti affermano che siamo stati bravissimi, tanto coraggiosi, così

abnegati; forse un pochino più annegati che abnegati, ma via, cosa vuol dire? Il Santo

Padre ha pronunciato un discorso stupendo, ha avuto addirittura la bontà d’insinuare

che siamo l’ombellico del mondo. E in un certo senso lo siamo, no? Con il che si

dimostra che anche a Firenze, come a Napoli e nel resto d’Italia, tutto finisce a

tarallucci e vino. Quanto poi alla causa di tanto rumore per nulla, è stato ampiamente

provato che l’Arno vuol bene a Firenze, un bene pazzo: eh, meno male che ci s’ha

l’Arno!

Carlo Coccioli

 

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