Disegno di Carlo Coccioli

COCCIOLI_UN_SUICIDIO_COPERTINA_PICCOLA“Ma cosa può farle, a lei e alla sua purezza, la sporcizia degli altri? Crede veramente che il suo senso della purezza sia alla mercé di chiunque, che una parola o un atto possa distruggere il tesoro che è in lei, e che un prete sia il Cristo o che un immondo personaggio che raccatta dei ragazzini all’uscita di un cinema debba necessariamente compromettere la sua idea dell’amore?” (Carlo Coccioli, Un suicidio, qui .)

Come negli anni ’50 del secolo scorso, l’omofobia è una minacciosa e crudele realtà in molti paesi e settori della società.Il tema di questo male oscuro, o sfacciatamente lampante, scorre come un filo rosso nelle opere di Carlo Coccioli e costituisce il terreno su cui si eleva anche l’affascinante costruzione del romanzo Un suicidio. Mentre in alcuni capitoletti del suo Journal, da noi pubblicati in appendice al libro, Coccioli  riporta senza filtri o trasfigurazioni letterarie la sua esperienza e i suoi pensieri di quello snodo della sua vita, svelando tra l’altro timidezze e paure insospettabili annidate persino nella élite intellettuale parigina del tempo. Eccone un saggio:

186. […] D’altronde, ciò che posso provare per questa morte che ha preso il nome di uno dei miei libri (il più necessario, il più grave) è troppo ancorato alla mia intimità e al mio segreto perché possa desiderare di parlarne con me stesso o con gli altri. Fabrizio Lupo non è né un gioco letterario né un moto d’umore. Non ho accettato che fosse pubblicato senza aver prima risposto a innumerevoli domande a volte molto perturbanti. Se cercarono di dissuadermi dal pubblicarlo, lo fecero solo per dei motivi di ordine assai pratico, e, per me, inaccettabili; Gabriel Marcel, di cui ammiro l’integrità morale, e che amo, scrivendomi in data 4 ottobre 1951, invocava, per esempio, una ragione di «scandalo» borghese: «Non ho letto Fabrizio Lupo che in parte, ma sono arrivato alla convinzione che il libro, anche rimaneggiato, non deve apparire in Feux Croisés. Come diceva molto giustamente ieri Orengo, Il cielo e la terra, che è un vero successo, ha raggiunto un pubblico essenzialmente cattolico che sarebbe scandalizzato in sommo grado dal suo ultimo libro.». Sebbene personalmente non avessi alcun dubbio riguardo alla necessità, persino all’esigenza, di un’opera del genere, destinata a raccomandare l’ordine e a rafforzare la speranza, spinsi i miei scrupoli al punto di sottometterla al giudizio di Julien Green, accompagnandola con la domanda: «Lei crede, messa da parte ogni considerazione di ordine letterario, che Fabrizio Lupo possa esercitare un’azione pericolosa sullo spirito di qualcuno dei suoi lettori?» e Julien Green mi rispose: «No.». Nel corso di tre o quattro conversazioni private, trattammo esplicitamente questa delicata questione che investe in pieno la responsabilità dello scrittore e l’etica letteraria. Ebbi allora la gioia di vedere che la mia certezza trovava un’ampia conferma nelle sottili argomentazioni di un uomo di cui non potevo non stimare l’eccezionale sensibilità morale. Dei nostri incontri, Julien Green ha giudicato opportuno non parlare nel suo Journal; la sua discrezione, questa volta più che mai, non ha mancato di sembrarmi bizzarra, lo confesso, soprattutto considerando l’importanza che sembrava attribuire a ciò che mi aveva spinto a chiedere il suo consiglio. Non posso d’altra parte non ricordarmi che, qualche giorno dopo la pubblicazione del mio libro, intervistato da André Bourrin di Les Nouvelles Littéraires, avevo ritenuto mio dovere di manifestare pubblicamente la mia riconoscenza verso Julien Green, rivelando il ruolo che aveva avuto la bontà di giocare nelle mie questioni spirituali per placare le mie ultime inquietudini; ma, una volta che Bourrin mi ebbe lasciato, preso da non saprei dire quale sorta di curioso scrupolo, tenendo, tuttavia, più che a un’opinione ragionevolmente fondata, a ciò che indovinavo come tipico di Julien Green, lo chiamai al telefono e gli comunicai che avevo appena citato il suo nome e messo in evidenza i suoi preziosi interventi. Allora ebbi la sgradevole sorpresa di sentire, all’altro capo del filo, un uomo sopraffatto dall’imbarazzo, quasi incapace di esprimersi, supremamente afflitto da un timore che gli era probabilmente difficile ammettere; ciononostante, finì per pregarmi di richiamare Bourrin: «Potrebbe dirgli che sarebbe preferibile che non parlasse affatto di me, lei capirà che certe questioni io mi riservo di trattarle un giorno direttamente ma con più prudenza, e che sarebbe increscioso che si potesse interpretare la mia azione come…» ecc. Non aveva bisogno di continuare; richiamai Bourrin, come mi aveva raccomandato, e il nome di Julien Green non apparve nell’intervista che Les Nouvelles Littéraires pubblicarono in data 26 giugno 1952 (dove, del resto, le mie dichiarazioni erano state passate al filtro della “decenza” piccolo-borghese). Ma non vorrei che da tutte queste parole si avesse l’impressione che io cerchi una scappatoia alla mia responsabilità; quali che siano le sue dimensioni e le sue conseguenze, essa appartiene solo a me, voglio dire che io sono il solo responsabile; sono il solo giudice della mia coscienza. Jorge Zuñiga Cordero, di cui piango la morte, non si è ucciso a causa di Fabrizio Lupo, questo libro che aveva tanto amato, come ha dichiarato lui stesso prima di morire, e che l’aveva tanto aiutato; la sua morte è dovuta, tutto al contrario, a quello stato d’animo, o di spirito, di cui io denuncio violentemente l’iniquità nel mio romanzo. Io ritengo che la morte atroce e teatrale di questo povero ragazzo messicano, orribile specchio di ciò che l’ha fatto morire, provi una volta di più che non mi sono sbagliato quando ho affermato la necessità imperiosa di un messaggio di speranza.

197 […] Ho il netto ricordo della prima visita che mi fece Jean N., dopo una breve lettera che, in seguito, definì “grottesca”. Fui io stesso che gli aprii la porta del mio appartamento parigino. Aveva l’aria di un bambino spaurito, benché avesse già vent’anni; notai le sue guance mal rasate, i suoi occhi stravolti e insieme disposti all’abbandono, il movimento, quasi un tremito, delle sue mani, una timidezza selvaggia mista a una specie di speranza testarda; ebbi l’impressione che non fosse in condizione di parlarmi e persino che si fosse pentito di aver bussato alla mia porta (ma con che tono di urgenza, d’imperiosa necessità, mi aveva scritto per chiedermi questo incontro!). Si sedette sul bordo di una sedia; gli offrii una sigaretta, che rifiutò con un gesto brusco; evitava con cura il mio sguardo; mi misi a parlargli con calma, e inutile dire che gli parlavo solo di me stesso; lui aveva quasi l’aria di non ascoltarmi, si sarebbe detto che mi tenesse il broncio; di tanto in tanto pronunciava una parola o due, era come se ammettesse che avevo ragione ma che la cosa non lo riguardava minimamente; e si richiudeva di nuovo nella torre della sua silenziosa ostilità. Mi faceva molta pena. Aveva l’aspetto di un giovane contadino senza alcuna forza, senza alcuna sicurezza interiore che non fosse quella della sua ostinazione; niente di più difficile di farlo parlare, ma ci riuscii. Cominciò col farmi sapere, con un accento di sfida, che era cattolico, e credente, e persino praticante; che, malgrado ciò, aveva già preso una decisione, poiché non poteva più vivere; eccola, la sua decisione; e, dicendomi questo, affondò il suo sguardo nel mio; poi, abbassando la testa, e su un altro tono, confessò che non sapeva più perché era venuto a trovarmi. «Forse», gli feci osservare, «è perché le occorre un testimone; non potendo più vivere, per usare il suo linguaggio, bisognava pure che lo dicesse a qualcuno; lei potrebbe concepire una protesta che non sia espressa in modo o in un altro?» Allora lui mi guardò di nuovo e come sorpreso: «Ma quindi non ha capito…» «Perfettamente», gli dissi, «e non cercherò neppure di distoglierla dal suo proposito.» Ci fu un silenzio; poi, parlò. Aveva finito il servizio militare qualche mese prima. Sarebbe dovuto tornare a casa; la sua famiglia, molto modesta, viveva in un villaggio del Limousin; era destinato a una carriera di maestro elementare in quello stesso villaggio; ma non aveva voluto tornare dai suoi genitori; aveva altre ambizioni. «Eppure lei non è un ambizioso», osservai interrompendolo. Alzò la testa: «Ah no?» «No, si vede.» «Io sono…» Non terminò la frase, il che, del resto, sarebbe stato superfluo, perché avevo capito. Continuò. Non possedendo che una piccola somma, frutto delle sue economie, aveva accettato, a Parigi, l’alloggio offertogli da una donna del suo paese, che aveva sposato un parigino ed era rimasta vedova: una specie di sgabuzzino dove, in ogni caso, era a casa sua; ma questa donna, che non era ricca, gli chiedeva un affitto, per quanto modestissimo; e lui doveva pur nutrirsi; questo d’altronde non aveva alcuna importanza, perché un bicchiere di latte, e talvolta nient’altro che un cucchiaio di farina diluito in una tazza d’acqua, potevano bastargli; e tutta la giornata a cercare lavoro. Aveva finito per trovarlo presso un notaio, un vero colpo di fortuna; ma ce l’aveva anche con se stesso per il fatto di raccontarmi simili miserie; la sostanza della questione non era lì. «La mia famiglia non ha mai accettato che io resti qui, s’immaginano che Parigi sia come l’anticamera dell’inferno, e che io passi la vita con delle donne…Un giorno, o più esattamente, una sera, dopo aver lasciato il lavoro (faccio il fattorino), avevo un magone tremendo, feci una lunga passeggiata sugli argini, ed ero talmente oppresso dalla solitudine che avevo voglia di piangere, allora mi sedetti su una panchina dietro Notre-Dame, e qualcuno mi si avvicinò: era un ragazzo. Aveva l’aria perbene, cominciò a parlarmi, anche lui si sentiva solo; erano le prime parole umane che mi venissero rivolte dal momento in cui ero venuto a vivere a Parigi (e ciononostante — non è strano? — non ricordo neppure che cosa mi ha detto). Aveva la mia età. Siccome faceva abbastanza freddo, e io non avevo voglia di lasciare questo ragazzo, ed era evidente che neanche lui ne aveva, gli proposi di andare da me, non era lontano, lui accettò. Così lo portai da me. E restammo lì, a chiacchierare del più e del meno, fino alle undici; alle undici, se ne andò. Il mattino dopo, la signora da cui abito mi guardò con aria strana; mi domandò chi era il giovane che mi aveva accompagnato nella mia camera. Le risposi che era uno che avevo conosciuto per la strada, uno studente, e che mi era simpatico; non osavo sperare di aver trovato un amico…Lei fece: Ah!, e questo fu tutto. Io lo ignoravo, ma lei si teneva in contatto con i miei genitori, i quali, non capendo le ragioni che mi spingevano a vivere a Parigi, e non dandosi pace, e abbandonandosi a ogni sorta d’ipotesi, avevano fatto di lei, di quella donna, la loro confidente; lei spiava i miei spostamenti e gli scriveva molto spesso; immagino che fosse insieme sorpresa e furiosa di non potergli dire che nella mia vita c’era una donna: quella sarebbe stata la migliore spiegazione del mio comportamento. Il fatto è che, qualche giorno più tardi, una settimana fa, ho ricevuto una visita. Era un prete, originario del mio paese ma che viveva da anni nella periferia di Parigi; un uomo sulla quarantina; lo conoscevo appena; avevo parlato con lui due o tre volte nella mia vita; s’è presentato con aria grave, annunciandomi che doveva parlarmi a proposito di una faccenda seria: tramite il parroco del nostro villaggio, suo vecchio amico, la mia famiglia l’aveva incaricato di una missione nei miei confronti. Avendo concluso questo breve prologo, questo prete, quest’uomo, mi ha detto…». Jean N. s’interruppe e si guardò intorno, smarrito; abbassò la testa, restò in silenzio. «Le ha detto cosa?» Ma mi accorsi che piangeva silenziosamente, che aveva le guance bagnate di lacrime. Non insistetti; aspettai. Accesi un’altra sigaretta. «Sono cristiano» mormorò Jean N. senza smettere di piangere. «Sono cristiano e ho sempre vissuto nella Chiesa. E questo prete, quest’uomo…». S’interruppe di nuovo senza che i suoi occhi smettessero di lasciar cadere dei lacrimoni; non era più che un bambino che ogni aggressività, ogni resistenza, persino ogni ostinazione avevano abbandonato; era per intero in queste lacrime puerili, senza difesa e senza più ritegno. «Avanti!» gli dissi allora a voce bassa, più commosso di quanto non volessi mostrargli. «Pianga, se le fa bene, ma continui a parlarmi; anche questo le farà bene; non era per parlarmi che è venuto?» «Allora quest’uomo, questo prete, mi ha detto che, spinto da una lettera dei miei genitori, che non avevano capito niente di quello che la loro confidente, in uno stato di grande esaltazione, gli aveva appena scritto, era andato a trovarla per saperne di più; e che aveva capito che io non ero che un disgraziato pervertito, e che se volevo vivere a Parigi era solo per abbandonarmi senza ritegno alle mie passioni vergognose, e che ne avevo fornito l’ultima prova portandomi a casa un ragazzo adescato sa Dio dove, che avessi almeno l’onestà di non negare! E, prima ancora che fossi in grado di fare un movimento o di pronunciare una parola di protesta, sporgendosi verso di me, e cambiando improvvisamente tono, quest’uomo, questo prete, mi ha detto che, nonostante tutto, lui sapeva capirmi, perché la carità, se non la giustizia, gliene dava il potere; e che era disposto a non denunciarmi ai miei genitori, come sarebbe stato suo dovere fare immediatamente; che aveva persino la possibilità di far tacere la signora che mi ospitava; insomma, che mi avrebbe aiutato a uscire dall’impasse in cui mi trovavo. Ma che, in cambio, io dovevo…». Jean N. si fermò di nuovo, mi guardava fissamente. Non piangeva più. «Che io dovevo, in cambio,» continuò con forza «che dovevo essere un po’ gentile con lui; ecco cosa mi disse quest’uomo, questo prete, e, tutto proteso com’era verso di me, e io ero, sotto il suo fiato, diventato di pietra, avvicinò la bocca al mio viso e cercò…» Feci un gesto. «Basta!» esclamai «basta!»; alzatomi, mi misi ad andare su e giù per la stanza. Più tranquillo, Jean N. taceva contemplandosi le scarpe. Riuscii a calmarmi. «E lei,» gli dissi fremendo «e lei, è per questa sporca storia, vero?, che lei ha deciso di non vivere più; perché quest’uomo, questo prete, ha cercato di sporcarla; solo per questo, perché lei è un puro e quello era una sozzura…Ma cosa può farle, a lei e alla sua purezza, la sporcizia degli altri? Crede veramente che il suo senso della purezza sia alla mercé di chiunque, che una parola o un atto possa distruggere il tesoro che è in lei, e che un prete sia il Cristo o che un immondo personaggio che raccatta dei ragazzini all’uscita di un cinema debba necessariamente compromettere la sua idea dell’amore? Se è questo che crede, lei si sbaglia. Ciò che ci incoraggia alla vita: l’amore, la chiarezza delle intenzioni, la sincerità nei rapporti sociali, la fedeltà verso se stessi, il tentativo instancabile di scoprire la nostra verità interiore, il Cristo…, ha un’esistenza autonoma, esiste per noi e malgrado noi, niente potrebbe abbassarne il valore, niente saprebbe contaminarne l’essenza; il tradimento è possibile, non il compromesso; lei potrà rifiutare, ma non potrà annientare; è una torre inespugnabile; è una regola che le nostre parole, le più astute delle nostre parole, sarebbero incapaci di alterare; è la sola realtà invariabile, e perciò venerabile, in un mondo che conosce tutta la gamma delle variazioni; il nostro conforto e il nostro riparo, la nostra armatura…» Queste parole, vorrei averle potute dire a Jorge Zuñiga Cordero, che si è ucciso per non aver saputo affrontare il sudiciume di questo mondo «molto crudele!». ” 

 

 

 

 

 

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